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Immagine del redattoreMattia Viglione

Great Green Wall: un muro di alberi per fermare il deserto

Aggiornamento: 24 mag 2022

Il deserto del Sahara avanza di circa 50Km ogni decade ed è diventato il 10% più vasto rispetto al 1920. La zona più colpita dal fenomeno è quella del Sahel, una striscia di terra tra il deserto del Sahara al Nord e la savana al Sud, dall’oceano Atlantico al Corno d’Africa. Per fermare l’avanzata del deserto nel 2007 11 Paesi africani della fascia del Sahel hanno deciso di unire le forze per creare una muraglia fatta di alberi, The Great Green Wall.

Un progetto tutto africano, che si è esteso ad oggi a 21 paesi e conta di far crescere oltre 8mila Km di alberi. Non solo fermare il deserto, ma la Great Green Wall è stata pensata per migliorare le condizioni di vita di tutte le persone che vivono nella fascia del Sahel, in accordo con 15 dei 17 obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dell’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite). Entro il 2030 la muraglia verde punta a rigenerare 100milioni di ettari di suolo in stato di degrado e così facendo ridurre 250milioni di tonnellate di CO2 nell’atmosfera e creare 10milioni di nuovi posti di lavoro nelle zone agricole.


Oltre a piantare alberi la Great Green Wall è stata pensata per migliorare la vita di tutte le persone che vivono nella fascia del Sahel, in prima linea sul fronte del cambiamento climatico e più di tutti ne soffrono le conseguenze. Il progetto è nato per dare lavoro ed eliminare la povertà, portare l’elettricità proveniente da fonti rinnovabili, migliorare le condizioni igienico-sanitarie, superare il divario di genere tra uomini e donne e far cessare la carenza alimentare e idrica che non permette lo sviluppo dell’Africa e porta milioni di persone a lasciare la loro terra e spingersi verso l’Europa.


Il progetto di costruire la Great Green Wall si formalizza nel 2007, ma l’idea nasce già negli anni ’70, quando si è iniziato a capire che i cambiamenti climatici, la sovrappopolazione dell’area e politiche di gestione del suolo stavano trasformando il territorio verdeggiante in terra secca e arida. Nel Sahel ci sono alcuni dei paesi più poveri al mondo e l’avanzamento del deserto ha messo alla prova l’economia di questi paesi basata sull’agricoltura itinerante, aspettando la rigenerazione naturale del suolo, spesso dopo aver bruciato parte della vegetazione. Con il deserto che avanza di circa 50km ogni 10 anni, questa tecnica non è più applicabile.


Nel 1972 il Sahel fu coinvolto da gravi siccità e carestie e la gente fu costretta a migrare verso le zone più a Sud verso le aree urbane. Negli anni ’80 gli episodi di carestie hanno coinvolto milioni di persone portando a ulteriori migrazioni, non più solamente verso il Sud, ma soprattutto verso l’Europa. Dal 2007 a oggi sono stati compiuti importanti risultati in tutti e 21 i paesi aderenti: in Senegal sono stati pianti più di 12milioni di alberi resistenti alla siccità; in Etiopia sono stati sottratti 15milioni di ettari di terreno al degrado; in Nigeria vengono prodotte 500mila tonnellate di grano all’anno per sfamare 2,5milioni di persone.


Risultati impressionanti, eppure la Great Green Wall è solo al 15% e lontano dall’essere conclusa. I paesi del Sahel da soli non riescono a far fronte alla vastità di problemi, ma soprattutto al costo di tale progetto: si stimano 33miliardi di dollari fino al completamento, somma fuori dalla portata dei paesi africani alla costante ricerca di finanziatori esteri per supportare l’iniziativa. Un programma che dovrebbe interessare da vicino i paesi dell’Unione Europea che ogni giorno fanno i conti con le migrazioni dall’Africa e porzioni di Italia (Sicilia e Sardegna) e Spagna sono direttamente coinvolte alla desertificazione.


Per velocizzare i tempi e portare il progetto al 30% in 5 anni al One Planet Summit 2021 di Parigi per la Biodiversità, sono stati stanziati 14miliardi di dollari di fondi da istituzioni internazionali e alcuni stati, tra questi anche la Commissione Europea.


Ma come si costruisce un Muro di alberi? Alla base dell’idea della Great Green Wall non c’è soltanto piantare alberi, ma creare un nuovo modello di vita per le popolazioni del Sahel che sia sostenibile e allo stesso tempo produca inclusività sociale e di genere, pari disponibilità alimentare e idrico, accesso alle cure sanitarie e possibilità di avere energia elettrica, prodotta da fonti rinnovabili.


Una delle iniziative per la riuscita della muraglia nasce in Senegal, i Tolou Keur (in lingua senegalese), giardini circolari, pensati come delle isole nel deserto, che riescono a implementare la produzione di cibo e di piante medicinali. Vengono piantati alberi resistenti al caldo africano come papaya o mango nella parte più esterna e piante medicinali all’interno. Proprio grazie alla forma circolare del giardino le radici crescono verso l’interno, intrappolando l’acqua e i batteri, così da permettere la conservazione e migliorare la qualità dell’acqua.


Il covid ha stimolato la costruzione di questi giardini. Dopo aver chiuso le frontiere, in Senegal si è cercato un metodo per ridurre le importazioni e le esportazioni, senza dover dipendere dai paesi stranieri né per il cibo, né per i medicinali. L’idea del design circolare dei Tolou Keur è di Aly Ndiaya, un ingegnere agricolo che vive in Brasile, ma proprio per il covid e le frontiere chiuse è stato costretto a rimanere in Senegal e reinventarsi. “Un Tolou Keur equivale a 1,5milioni di alberi. Se iniziamo subito possiamo fare molto”, dice entusiasta Aly Ndiaya.


Non tutti i Tolou Keur hanno avuto successo. Alcune volte per carenze di risorse, altre volte invece perché il deserto è arrivato prima della mano dell’uomo e non ha permesso lo sviluppo del giardino. Un altro limite della Great Green Wall è che per molto tempo si è cercato di procedere alla riforestazione senza pensare a strategie più inclusive che ristrutturino l’economia della fascia del Sahel e coinvolgessero le popolazioni locali come invece stanno facendo i Tolou Keur.


La Great Green Wall è un grande esperimento che non vuole soltanto rallentare la desertificazione, ma rendere le popolazioni autosufficienti, coinvolgere le popolazioni locali e migliorare i loro stili di vita per donargli una speranza che non sia soltanto quella dei pericoli viaggi in mare verso l’Europa. Un esperimento che potrebbe essere facilmente replicato anche in Italia che in zone come Sardegna e Sicilia soffre in prima linea la desertificazione.






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